Richieste di accesso agli atti: non comporta reato
Con la sentenza n. 25296/2021 la Corte di Cassazione ha deliberato che qualora un contribuente presenti ripetutamente richieste di accesso agli atti ciò non comporta reato e nello specifico non costituisce interruzione di pubblico servizio (di cui all’art. 340 codice penale).
Nello specifico, la vicenda che ha interessato la Corte parte da continue e complesse richieste di accessi agli atti per l’Ufficio tecnico da parte di un geometra, ritenute spesso dall’Ente immotivate. Comportamento del geometra protrattosi per quattro anni e che ha comportato per l’Ente un rallentamento nella gestione interna dell’Ufficio preposto. L’Ente ha denunciato il fatto considerandolo “turbamento di pubblico servizio”.
In prima istanza, il tribunale di Firenze aveva condannato il contribuente sottolineando che tale comportamento poteva essere punito dall’art. 340 codice penale. In secondo grado la sentenza veniva ribaltata, assolvendo quest’ultimo e ritenendo di non poter imputare la difficoltà incontrata dall’Ufficio nel rispondere a tali istanze.
A seguire, il Comune, costituito parte civile nel processo, aveva presentato ricorso per Cassazione.
Premesso che: “Costituisce interruzione di ufficio o di pubblico servizio ogni condotta che determini una qualunque temporanea alterazione, oggettivamente apprezzabile, della regolarità dell’ufficio o del servizio, anche se coinvolgente un settore e non la totalità delle attività”.
Ebbene la Corte ha stabilito che “l’accesso agli atti è espressione di un principio generale dell'attività amministrativa teso a garantire la partecipazione dei cittadini e ad assicurare l'imparzialità e la trasparenza della P.A. Pertanto, quando l’accesso agli atti è sorretto da un motivato interesse alla richiesta, esso costituisce esercizio di un diritto ai sensi dell’art. 51 comma 1 c.p., che esclude la punibilità del reato. Viceversa, “solo se sia accertato che la mancanza di un motivato interesse e le continue richieste di accesso e di copia dei più disparati documenti abbiano comportato alterazione nella regolarità dell'ufficio può configurarsi il reato di interruzione di un ufficio o servizio pubblico ex art. 340 c.p.”.
Inoltre nella sentenza si legge: “L’elemento oggettivo del reato è integrato purché venga dimostrato il nesso di causalità fra le plurime richieste dell’utente e il turbamento dell’attività. L’elemento soggettivo invece richiede la prova della coscienza e volontà, anche in forma di dolo eventuale, di strumentalizzare il diritto di accesso per turbare la regolare attività dell’ufficio”.
Ad avviso della Cassazione, nel caso specifico non erano stati dimostrati tali fatti. Ciò che occorre dimostrare, non è il turbamento psicologico e organizzativo causato all’Ente, ma dell’oggettivo turbamento del regolare funzionamento dell’ufficio, tale da incidere sulla sua complessiva attività.
Per configurare il reato di cui all’ art. 340 c.p., sarebbe stato necessario invece dimostrare “che il privato fosse consapevole che il proprio comportamento potesse determinare l'interruzione o il turbamento del pubblico ufficio o servizio, accettando il relativo rischio”.