IMU: enti non commerciali e retta simbolica
Non spetta l’esonero dall’IMU all’istituto religioso proprietario di un complesso immobiliare in cui viene svolta attività assistenziale, previdenziale e didattica, se non viene accertato che la retta è simbolica e inidonea a costituire una retribuzione del servizio.
Così ha stabilito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 15364/2022, con la quale è stato accolto il ricorso di un comune.
In secondo grado, la CTR dichiarava sussistenti i requisiti per usufruire dall’esonero dall’imposta, con particolare riferimento alla retta di misura tale da non poter essere considerata una remunerazione del servizio fornito.
Per la Cassazione le condizioni necessarie per beneficiare dell’esenzione da IMU sono le seguenti:
1) gli immobili devono essere utilizzati da enti non commerciali (medesimo requisito soggettivo);
2) devono essere destinati esclusivamente allo svolgimento delle attività tassativamente indicate (quelle assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative, sportive e di religione o culto);
3) le attività tassativamente indicate devono essere svolte con modalità non commerciali (novità).
Inoltre, nel D.M. 19 novembre 2012, n. 200, regolamento redatto da parte del Ministero dell'Economia e delle Finanze, sono stati stabili requisiti, generali e speciali, per qualificare le attività indicate nella norma come svolte "con modalità non commerciali”. Tra i requisiti indicati dal DM, è previsto che l’attività sia svolta a titolo gratuito, ovvero dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico e tali da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con lo stesso.
Secondo la Cassazione, la CTR avrebbe dovuto verificare che la retta pagata dagli alunni della struttura non costituisse un contributo inidoneo a coprire, per una parte significativa, i costi effettivi di gestione non potendo assumere rilievo la mera circostanza che la retta coprisse solo una parte dei costi. Quindi, avrebbe dovuto verificare la gratuità dell’attività didattica svolta dall’istituto religioso ovvero che gli eventuali importi versati fossero, per la loro entità, simbolici o comunque inidonei a costituire una retribuzione del servizio prestato in quanto notevolmente inferiori ai costi di gestione.
Per questi motivi, la Corte ha accolto il ricorso e cassato la decisione impugnata.