Divieto di nuovi documenti in appello: richiesto intervento della Corte Costituzionale
Con ordinanza del 09 Luglio 2024 n. 1658/16, La Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Campania, ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale del comma 3 dell’art. 58, D.lgs. n. 546/1992, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), D.lgs. n. 220/2023 che ha sancito, per i giudizi instaurati dal 4 gennaio 2024, il divieto di depositare nel giudizio di secondo grado determinate categorie di documenti, tra cui “le notifiche dell’atto impugnato”.
L’art 58 in vigore dal 15/01/1993 prevedeva:
- Il giudice d'appello non puo' disporre nuove prove, salvo che non le ritenga necessarie ai fini della decisione o che la parte dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile.
- E' fatta salva la facolta' delle parti di produrre nuovi documenti.
Pertanto, secondo il diritto era sempre consentita la produzione nel giudizio di appello di nuovi documenti, in ciò derogando rispetto a quanto previsto dall'art. 345 c.p.c. nel testo vigente in seguito alle modifiche operate dalla legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile).
Dal 04 gennaio 2024, come modificato dal Decreto legislativo del 30/12/2023 n. 220 Articolo 1, l’art 58 stabilisce:
- Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.
- Possono essere proposti motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti, non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado, da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti impugnati.
- Non e' mai consentito il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimita' della sottoscrizione degli atti, delle notifiche dell'atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimita' che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell'articolo 14 comma 6-bis.
Se il primo e il secondo comma dell'art. 58 ricalcano in parte, l'attuale formulazione dell'art. 345 c.p.c. in tema di nuove prove in appello (mancando però nel codice di rito il riferimento ai documenti "indispensabili"), il comma 3 introduce una deroga significativa, relativamente alla produzione di determinate categorie di documenti.
Secondo i giudici, tale disposizione contrasta con l’art. 3, comma 1, Cost., in combinato disposto con gli artt. 102, comma 1, 111, comma 1 e 24, comma 2, Cost., in quanto priva il giudice del potere di delibazione sulla “indispensabilità” dei documenti nuovi che il primo comma, invece, espressamente gli concede.
Inoltre, il suindicato comma 3 dell’art. 58, D.lgs. n. 546/1992 favorisce l’”intromissione” del Legislatore nella valutazione del compendio istruttorio, ambito riservato all’Autorità Giudiziaria. A parere dei giudici, infine, la disposizione contrasta con l’art. 111, commi 1 e 2, Cost., in quanto determina una disparità tra i poteri processuali concessi al privato in sede di gravame e quelli concessi alla parte pubblica.
Sembrerebbe dunque, secondo il dato testuale, insuperabile per l 'espressione utilizzata, di chiara deroga ai commi precedenti ("Non è mai consentito"), i documenti descritti dal comma 3, anche se indispensabili per la decisione o anche ove la parte dimostri di non averli potuti produrre in primo grado per causa ad essa non imputabile, non possono mai essere depositati nel giudizio di appello.
Nel caso di specie, il contribuente aveva impugnato una intimazione di pagamento eccependo, tra gli altri motivi, la mancata notifica delle cartelle presupposte. L’Agenzia delle Entrate – Riscossione, solo nel giudizio di appello, aveva prodotto la copia di n. 15 relate a dimostrazione della regolare notifica delle cartelle sottese all’intimazione de qua.
Ora, poiché la norma è applicabile anche ai giudizi di appello in corso, in quanto instaurati dopo il 4 gennaio 2024, la parte pubblica si è oggettivamente trovata privata, in modo imprevisto e imprevedibile, di una facoltà processuale di posticipazione delle prove che aveva a disposizione allorché è stato incardinato il giudizio e ha dovuto elaborare le proprie scelte processuali.
I giudici di questa Corte affermano: “secondo il diritto vivente consolidatosi nel regime previgente, «nel processo tributario, le parti possono produrre in appello nuovi documenti, anche ove gli stessi comportino un ampliamento della materia del contendere e siano preesistenti al giudizio di primo grado, purché ciò avvenga, ai fini del rispetto del principio del contraddittorio nei confronti delle altre parti, entro il termine di decadenza di cui all'art. 32 del D.Lgs. n. 546 del 1992" (cfr., tra le innumerevoli, Cass. n. 17164 del 2018). Ancora: "nel processo tributario, ai sensi dell'art. 58, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992, la parte può produrre in appello prove documentali, anche se preesistenti al giudizio di primo grado e pure se, in quest'ultimo giudizio, era rimasta contumace" (così, ad es., Cass. n. 17921 del 2021)»: così Cassazione civile, ordinanza, 20 febbraio 2024, n. 4510.”
Per queste ragioni si riscontrano dubbi sulla costituzionalità di quanto stabilito.
I giudici sottolineano che “stante il cennato collegamento con il presente giudizio, la questione di legittimità costituzionale è attuale e, certamente, non meramente ipotetica (ordinanze n. 34 del 2016, nn. 269 e 193 del 2015; ord. 128 del 2015), né prematura (ordinanze n. 176 del 2011, n. 26 del 2012, n. 161 del 2015), né tantomeno tardiva, qual è riferita a evenienze sostanziali o processuali non ancora (o già) verificatesi (sentenze n. 100 del 2015; ordinanza n. 162 del 201"). "Rilevante", dunque, è la norma di cui, come nel caso di specie, il giudice debba necessariamente fare applicazione per decidere la controversia a lui sottoposta.”
Ciò che si “denuncia” è un'assenza di ratio intrinseca coerente a un criterio di razionalità pratica, che è matrice dell'equità (sentenza n. 74 del 1992; ma v. anche sentenza n. 172 del 1996).
Analizzando il primo comma del nuovo art. 58, si attribuisce al giudice il potere di svolgere un giudizio di indispensabilità della documentazione depositata soltanto in secondo grado. E, per indispensabilità, deve intendersi, secondo l'insegnamento già elaborato dalla Corte di cassazione in relazione al previgente art. 345 c.p.c. a seguito della novella portata dalla legge n. 69 del 2009, una peculiare efficacia dei nuovi elementi di prova, nel senso che si tratta di prove che appaiono idonee a fornire un contributo essenziale all'accertamento della verità materiale, per essere dotate di un grado di decisività e certezza tale che, di per sé sole, quindi anche a prescindere dal loro collegamento con altri elementi di prova e con altre indagini, conducano ad un "esito necessario" della controversia (Cassazione civile, sentenza, 19 aprile 2006 n. 9120; Cassazione civile, ordinanza, 26 luglio 2012 n. 13353; Cassazione civile, sentenza, 29 maggio 2013, n. 13432). Ora, su tali basi, deve ritenersi che sia al legislatore precluso, per un verso, con il primo comma dell'art. 58 cit. consentire al giudice di svolgere tal tipo di giudizio di indispensabilità della documentazione prodotta in giudizio solo in secondo grado e, poi, per altro verso, al terzo comma dell'art. 58, impedire al medesimo giudice di compiere proprio siffatta attività per una certa tipologia di atti, ontologicamente indispensabili secondo l'anzidetta accezione (qual è, appunto, la documentazione relativa alle notificazioni).
Con il rinvio alla Corte Costituzionale, i giudici vogliono portare chiarezza sulle intenzioni del legislatore, in quanto nel riscrivere l'art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992 al terzo comma (di assoluto nuovo conio nel generale panorama processuale), è incorso in un'autoevidente contraddizione: priva il giudice del potere di delibazione che il primo comma gli concede. Il che costituisce un indice sintomatico di irragionevolezza e illogicità intrinseca della disposizione, che, peraltro si traduce in un trattamento differenziato delle parti in lite privo di una valida ragione giustificativa.