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Diritto di rogito segretari con dirigenza, la Cassazione respinge il ricorso

La Corte di Cassazione con sentenza n. 31003/2024 ha respinto il ricorso di un segretario comunale in un ente con dirigenza, in coerenza con le indicazioni della Consulta, in merito al mancato pagamento dei diritti di rogito.

I magistrati evidenziano che la Corte costituzionale ha rilevato che il rapporto di strumentalità che correva tra il principio di onnicomprensività espresso dall’art. 24 del d.lgs. n. 165 del 2001 e il preminente interesse alla corretta e oculata allocazione delle risorse pubbliche e all’equilibrio di bilancio non inibiva al legislatore di introdurre disposizioni derogatorie, spettando alla sua discrezionalità stabilire discipline differenziate per regolare situazioni che ritenesse, ragionevolmente e non arbitrariamente, connotate da elementi di distinzione (sentenze della Corte costituzionale n. 383 del 1987 e n. 158 del 1975).

Tuttavia, l’art. 10, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, aveva rimosso un beneficio economico che, remunerando lo svolgimento di una funzione istituzionale in aggiunta al più alto trattamento retributivo riconosciuto nel settore del lavoro pubblico (quello dirigenziale), aveva rivelato nel tempo una intrinseca disarmonia con il sistema. In conclusione, una disposizione siffatta non minava l’adeguatezza e la proporzionalità della retribuzione dei segretari comunali e provinciali e, quindi, non era in conflitto con l’art. 36 Cost. In questa prospettiva, anche la questione relativa alla violazione dei principi della certezza del diritto e del legittimo affidamento era non fondata. La Corte costituzionale aveva già affermato, infatti, che «[l]’esigenza di ripristinare criteri di equità e di ragionevolezza e di rimuovere le sperequazioni e le incongruenze, insite in un trattamento di favore, è era ritenersi preponderante rispetto alla tutela dell’affidamento» (sentenza della Corte costituzionale n. 240 del 2019). Per il giudice delle leggi erano prive di fondamento pure le censure che denunciavano la violazione dell’art. 3 Cost. per disparità di trattamento. L’art. 10 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, ai commi 1 e 2 bis, esprimeva due norme, l’una, che abrogava la disciplina che destinava a tutti i segretari roganti una quota dei diritti di segreteria percepiti dall’ente locale e, l’altra, che in deroga alla prima, attribuiva tale provento - sia pure in misura ridotta rispetto a quella accordata dalla normativa previgente - ai segretari titolari di incarichi presso enti senza dirigenti e, comunque, a quelli privi di qualifica dirigenziale. La Corte costituzionale ha osservato, quindi, che nel giudizio di eguaglianza, tale ultima previsione non avrebbe potuto fornire un utile termine di confronto, stante il suo carattere derogatorio. Secondo la giurisprudenza costituzionale, la violazione del principio di eguaglianza non poteva, infatti, essere invocata quando la disposizione di legge da cui era tratto il tertium comparationis si rivelasse derogatoria di una regola generale. In questo caso, la funzione del giudizio di legittimità costituzionale alla stregua dell’art. 3 Cost. non poteva coincidere che con il ripristino della disciplina generale, ingiustificatamente derogata da quella particolare (sentenze della Corte costituzionale n. 208 del 2019 e n. 96 del 2008), e non con l’estensione ad altri casi di quest’ultima, la quale avrebbe aggravato, anziché eliminare, il difetto di coerenza del sistema normativo (sentenze della Corte costituzionale n. 98 del 2023 e n. 206 del 2004). Nel caso di specie, le due situazioni poste a confronto - quella dei segretari che subivano l’abrogazione dei diritti di rogito disposta dall’art. 10, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, e quella di coloro che, essendo soggetti al regime differenziato di cui al comma 2 bis del medesimo articolo, continuavano a godere del beneficio - non rispondevano, ad avviso della Corte costituzionale, alla medesima ragione giustificatrice. La previsione derogatoria era stata inserita in sede di conversione al fine di attenuare l’impatto economico che la totale soppressione dei diritti di rogito, disposta dal testo originario del d.l. n. 90 del 2014, avrebbe prodotto sui segretari fruenti del trattamento economico più basso (segretari di fascia «C») o, comunque, non ammessi all’allineamento economico alla posizione dirigenziale previsto dall’art. 41, comma 5, del CCNL maggio 2001 (segretari di fasce «A» e «B» che prestano servizio in enti privi di dirigenti). La Corte costituzionale ha messo in luce che la genesi e le finalità della disciplina in scrutinio rievocavano un analogo processo legislativo che, in passato, aveva già condotto all’eliminazione dei diritti di rogito per i segretari, poi ripristinati dalla legge n. 312 del 1980 e nuovamente rimodulati dalla disposizione in scrutinio. Si trattava della eliminazione, ad opera dell’art. 27, comma 5, del d.P.R. n. 749 del 1972, di tali diritti per i segretari di livello più elevato, alla quale si era aggiunto il riconoscimento, in favore degli stessi, dello stipendio dei dirigenti delle amministrazioni statali (art. 25, comma 5, del d.P.R. n. 749 del 1972). A tale previsione era seguita, a breve distanza di tempo, la soppressione, ad opera dell’art. 30, comma 2, della legge n. 734 del 1973, dell’emolumento in

questione anche per i segretari privi di qualifica dirigenziale, a fronte della quale l’art. 29 della medesima legge riconobbe a questi ultimi un assegno perequativo pensionabile. La Corte costituzionale aveva osservato, con riferimento alla legge n. 734 del 1973, che questa aveva inteso «dare un diverso assetto al trattamento economico dei dipendenti civili dello Stato non aventi funzioni dirigenziali, al fine di introdurre anche per costoro i principi della c.d. onnicomprensività e della chiarezza retributiva» e che, «allo scopo di non arrecare danni economici e cioè di evitare una soverchia diminuzione della complessiva retribuzione dei dipendenti stessi, l’art. 1 della medesima legge ha accordato a costoro un assegno denominato “perequativo”, perché inteso (come del resto dice la stessa denominazione) ad evitare i cennati danni» (sentenza della Corte costituzionale n. 227 del 1982). Un’analoga finalità aveva ispirato la scelta, alla base della previsione qui censurata, di mantenere l’emolumento per i soli segretari comunali e provinciali fruenti di un trattamento stipendiale complessivamente meno elevato. La deroga introdotta dal comma 2 bis dell’art. 10 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, si inscriveva, infatti, in una «logica perequativa e di ristoro sotto il profilo retributivo per i segretari che, per fascia di appartenenza e per numero di abitanti dell’ente territoriale in cui prestano servizio, non godano del trattamento equiparato a quello dirigenziale o non usufruiscano del galleggiamento per mancanza di dirigenti o per altre ragioni» (Corte conti, sez. contr. reg. Friuli-Venezia Giulia, delib. 33/2021/PAR). La Corte costituzionale ha escluso, allora, che la posta economica sottratta ai segretari con qualifica dirigenziale operanti in comuni e province muniti di dirigenti sia funzionalmente omogenea, e, quindi, comparabile, a quella attribuita ai segretari che, invece, prestano servizio in enti che ne sono privi, o sono sprovvisti di qualifica dirigenziale. Le posizioni in comparazione si differenziano, peraltro, anche sotto il profilo soggettivo.

La normativa censurata sacrificava le sole posizioni di quei segretari che operavano presso gli enti locali dotati di dirigenti, e che per tale ragione potevano essere allineati, sotto il profilo economico, a tali figure apicali. La comparazione auspicata dai giudici rimettenti sarebbe dovuta avvenire, quindi, tra dipendenti allineati economicamente alle figure apicali e dipendenti esclusi da tale equiparazione (in quanto collocati presso enti privi di dirigenti) o, comunque, destinatari di un trattamento economico significativamente inferiore rispetto a quello goduto dai primi (segretari privi di qualifica dirigenziale). Secondo la Corte costituzionale l’art. 10, comma 2 bis, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, non contrastava neppure con il principio di ragionevolezza, come sostenuto, invece, dai giudici rimettenti, i quali ritenevano che, alla stregua di tale disposizione, i segretari privi di qualifica dirigenziale, ove prestassero servizio presso enti locali muniti di dirigenti, avrebbero potuto “galleggiare” e, al contempo, percepire i diritti di rogito. Inoltre, in caso di esercizio della funzione segretariale presso sedi convenzionate, un segretario che avesse ottenuto l’allineamento stipendiale al livello dirigenziale presso un ente avrebbe potuto percepire, al contempo, i diritti di rogito presso un altro ente. Quanto al primo rilievo, la Corte costituzionale ha evidenziato che l’ipotesi di un segretario che, pur non avendo qualifica dirigenziale, prestasse servizio presso un ente con dirigenti costituiva un’evenienza affatto remota, posto che i segretari di fascia «C» potevano assumere l’incarico solo presso enti di dimensioni molto limitate (con popolazione fino a 3.000 abitanti) i quali, nella generalità dei casi, non disponevano, nel proprio organico, di figure dirigenziali. Inoltre, il segretario privo di qualifica dirigenziale, anche qualora avesse usufruito, ai sensi dell’art. 41, comma 5, del CCNL 16 maggio 2001, di una retribuzione di posizione allineata a quella della dirigenza, avrebbe continuato a percepire uno stipendio tabellare largamente inferiore rispetto a quello riconosciuto ai segretari con qualifica dirigenziale, il quale, a prescindere dal “galleggiamento”, eguagliava, in ogni caso, quello dei dirigenti, come reso evidente dal raffronto tra gli artt. 54 e 106 del CCNL 17 dicembre 2020. Corte di Cassazione - copia non ufficiale

La Corte costituzionale ha rigettato, poi, pure le censure formulate in riferimento all’art. 97 Cost. La norma in scrutinio non avrebbe potuto produrre un effetto disincentivante per i segretari investiti dalla soppressione dei diritti di rogito, in quanto l’esercizio della funzione rogante era connesso ai compiti istituzionali. In ogni caso, il principio del buon andamento della pubblica amministrazione non poteva essere associato all’entità della retribuzione, la quale non era legata da un vincolo funzionale all’efficiente organizzazione amministrativa. Peraltro, anche nel caso in cui un effetto dissuasivo si fosse prodotto, «esso non è automaticamente di pregiudizio al buon andamento della pubblica amministrazione, posto che l’efficienza della macchina amministrativa non è di per sé scalfita dal fatto che determinate funzioni siano esercitate da personale che non gode del livello retributivo massimo consentito ma dispone comunque di adeguata competenza e professionalità» (sentenza della Corte costituzionale n. 27 del 2022). Le considerazioni di cui sopra rispondono a tutte le questioni sollevate dal ricorrente. Sicuramente sono rigettate le censure correlate agli artt. 3, 36, 77 e 97 Cost. Implicitamente, però, sono respinte anche quelle concernenti gli artt. 39 e 53 Cost. L’art. 39 Cost. non è violato, atteso che la riforma in esame ha semplicemente allineato la normativa concernente i segretari comunali a quella base dei pubblici dipendenti e, in particolare, ha soppresso, con atto avente forza di legge, un’eccezione al principio di onnicomprensività della retribuzione. Quanto all’art. 53 Cost., non è stata prospettata nessuna lesione dei principi relativi al concorso alle spese pubbliche e al sistema tributario.