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Covid: rinegoziazione dei contratti di locazione rimessa alla Sezione Autonomie

La Sezione di controllo per l’Emilia-Romagna, nella Deliberazione n. 32/2021, ha ritenuto di sospendere la propria pronuncia e sottoporre al Presidente della Corte dei conti la valutazione dell’opportunità di deferire alla Sezione delle Autonomie, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, o alle Sezioni riunite, ai sensi dell’art. 17, comma 31, del d.l. n. 78 del 2009, la questione sulla possibilità per gli enti locali di rinegoziazione, su richiesta, dei contratti di locazione di diritto privato stipulati tra un Comune e le imprese (nel caso esercenti attività di somministrazione alimenti e bevande, commerciali e artigianali), in conseguenza delle misure restrittive imposte dall’emergenza sanitaria.

La Corte dei conti, infatti, ritiene che sia necessario bilanciare e trovare una sintesi tra due elementi:

-i principi sanciti dalla magistratura contabile per cui la rinegoziazione, "configurando nella sostanza una remissione del debito, ... confliggerebbe quindi con l’orientamento secondo cui non soltanto è illecito rinunciare ai canoni di locazione ma finanche ridurli, fuori dai casi specificamente consentiti dalla legge, benché in favore di altre pubbliche amministrazioni (Corte dei conti, Sez. II, centrale di appello, n. 537/2017; id. n. 56/2017, id. n. 1345/2016; Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale del Lazio, sentenza n. 228/2016)

-ma anche la natura privatistica del rapporto e la relativa disciplina codicistica, posto che rinegoziazione dei contratti è contemplata dall’art. 1467, comma 3, del codice civile, la quale trae la propria origine proprio dalla necessità di intervenire per ripristinare l’originario equilibrio sinallagmatico, esistente fra il complesso di prestazioni e controprestazioni, alterato da "fatti sopravvenuti" quali può essere, appunto, l'emergenza epidemiologica.

A tal proposito, la sezione cita le autorevoli indicazioni formulate dalla Corte di cassazione nella recente Relazione (“A cura dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo”) n. 56 dell’8 luglio 2020, avente ad oggetto le “Novità normative sostanziali del diritto “emergenziale” anti-Covid 19 in ambito contrattuale e concorsuale”, dove la rinegoziazione si configura come rimedio per ricondurre ad equità il rapporto tra le parti.
Dalla Relazione, la Sezione evidenzia altresì che "si desume anche che “rinegoziare” implica un preciso atteggiamento: porre in essere tutti quegli atti che, in relazione alle circostanze, possono concretamente consentire alle parti di accordarsi sulle condizioni dell'adeguamento del contratto, alla luce delle modificazioni intervenute. Ovviamente, l'obbligo di rinegoziare impone di intavolare nuove trattative e di condurle correttamente, ma non anche di concludere, in ogni caso, un nuovo contratto. Quindi, la parte chiamata alla rinegoziazione è adempiente se, in presenza dei presupposti di una revisione del contratto, promuove una trattativa o raccoglie positivamente l'invito alla rinegoziazione, “mentre non può esserle richiesto di acconsentire ad ogni pretesa della parte svantaggiata o di addivenire in ogni caso alla conclusione del contratto, che, è evidente, presuppone valutazioni personali di convenienza economica e giuridica che non possono essere sottratte né all'uno, né all'altro contraente”. Infatti, in base alla costante giurisprudenza in materia, i canoni della solidarietà contrattuale, fondati sulla buona fede, prescrivono di salvaguardare l'interesse altrui, ma non fino al punto di subire un apprezzabile sacrificio, personale o economico (ex multis Cass. 27 aprile 2011, n. 9404 e Cass. 4 maggio 2009, n. 10182). Costituirà, per contro, inadempimento, l'ingiustificata opposizione alla trattativa o il limitarsi ad intavolare trattative di mera facciata. Dunque, è ben possibile, anzi obbligatorio rinegoziare, “qualora il sinallagma contrattuale sia stravolto dalla pandemia e la parte avvantaggiata disattenda gli obblighi di protezione nei confronti dell’altra. In tal senso, “limitare la tutela di quest’ultima alla risoluzione e al risarcimento del danno significherebbe demolire il rapporto contrattuale, incanalandolo in quell’imbuto esiziale che la clausola di buona fede e la rinegoziazione dovrebbero valere a scongiurare. Parrebbe anomalo che il contratto cessi sempre e comunque per effetto del comportamento di una delle parti che, con una scelta di campo incompatibile con la finalità manutentiva del rapporto, ne determini giocoforza la cesura”.

La coesistenza di un obbligo civilistico e di un divieto di natura pubblicistica lascia aperte due opzioni: se esista un obbligo di tenere fermi i contratti stipulati, ovvero se invece esso receda di fronte a un generale obbligo di rinegoziazione dei contratti.
Ciò in quanto, da un lato: “I contratti di locazione sono da considerare strumenti di incremento delle risorse pubbliche e, in tale ottica, devono essere improntati a criteri di stretta economicità (art. 1, l. n. 241/1990 e s.i.m.), con l’effetto che si dovrebbe garantire, (…) il massimo valore ottenibile dall'impiego delle risorse a disposizione” (Corte dei conti, Sezione II centrale di appello, sentenza 78 del 12 marzo 2019); dall’altro lato, sembra sussistere un obbligo di rinegoziazione scaturente dall’ermeneusi dei principi civilistici ricavabili dalla sopra illustrata evoluzione normativa, in ragione della sopravvenienza di eventi quali il Covid 19 che hanno determinato una oggettiva situazione di squilibrio tra le parti. Cio’ anche eventualmente in riferimento ai rinnovati limiti e modalità di concessione da parte dell’ente locale di contributi economici contemplati dagli artt. 54 e segg. del D.L.34/2020."

La soluzione, per chi scrive, non può che essere l'ammissibilità della rinegoziazione, in specie nella situazione emergenziale, purché motivata e bilanciata dalla contrapposizione di interessi che sono stati, effettivamente, vagliati.
In linea generale, un obbligo incondizionato di tenere fermi contratti non solo pare anacronistico, ma contrario a principi di sana gestione vincolando gli enti a rapporti giuridici che, di fatto, non producono più entrate, limitano l'utilizzo del patrimonio o comportano contenziosi.