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Il dipendente pubblico condannando con interdizione perpetua dai pubblici uffici può essere destituito

La Suprema Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza n. 30527/2024 si è occupata della vicenda di un dipendente del MIUR, professore di educazione fisica, il quale aveva impugnato il provvedimento di licenziamento disciplinare comminato a seguito di condanna penale con interdizione perpetua dai pubblici uffici.

La S.C., in particolare, ha chiarito che, secondo costante giurisprudenza “nel nostro ordinamento devono ritenersi ancora presenti ipotesi di destituzione automatica, in quanto il principio dell’ineluttabilità del procedimento disciplinare non concerne le pene accessorie di carattere interdittivo, atteso che la risoluzione del rapporto di impiego costituisce solo un effetto indiretto della pena accessoria comminata in perpetuo (e salve le ipotesi di indulto, grazia o riabilitazione che costituiscono accidenti futuri ed incerti rispetto alla tendenziale stabilità che caratterizza le pene in esame), che impedisce, ab externo, il fisiologico svolgersi del sinallagma fra prestazioni lavorative e controprestazioni pubbliche per la sopravvenuta mancanza di un requisito soggettivo (Cass. n. 16153/2009)”, precisando come “l’Amministrazione, in presenza di una sentenza penale di condanna con pena accessoria interdittiva, non può fare altro che disporre la cessazione dal servizio con un provvedimento che non ha carattere né costitutivo, né discrezionale, venendo in rilievo un atto vincolato, dichiarativo di uno status conseguente al giudizio penale definitivo nei confronti del dipendente”.

A parere del Giudice di Legittimità, infatti, “l’art. 9, comma 1, della legge n. 19/1990, emanato in coerenza con la declaratoria di incostituzionalità della destituzione automatica a seguito di condanna penale, non ha abolito tutte le norme contrastanti con il divieto di automatica destituzione, ma solo quella indicata dalla Corte costituzionale” ritenendo detta interpretazione coerente “con i principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 971 del 1988, che ha dichiarato I'incostituzionalità dell’art. 85, lett. a) del d.P.R. n. 3/1957, né con l'art. 9 della legge n. 19/1990 che ha recepito tale principio. In particolare, l'art. 9, comma 1, della legge n. 19/1990, per il quale il pubblico dipendente non può essere destituito di diritto a seguito di condanna penale, nella sua formulazione letterale non è abrogativo dell’art. 85 lett. b), norma che si riferisce all’ipotesi di interdizione perpetua dai pubblici uffici, che fa cessare il rapporto di pubblico impiego e ne impedisce la costituzione senza la necessita di un procedimento disciplinare”.

In buona sostanza non vi è, e non vi può essere alcun automatismo tra condanna in un procedimento penale e licenziamento disciplinare del pubblico dipendente condannato, mentre, se unitamente alla condanna penale divenuta definitiva viene comminata altresì l’interdizione perpetua ai pubblici uffici, la P.A. non può far altro che licenziare il dipendente essendo venuto meno e in maniera definitiva un requisito soggettivo necessario tale da rende impossibile lo svolgimento dell’attività lavorativa.